Vangelo della XV domenica: Il seme ed i terreni della parola
19-07-2023 23:50 - IL VANGELO SECONDO DON PIERO
Ivrea (TO), di
Se la cosa ti può consolare, qualcosa del genere è accaduto anche alla Parola di Dio, predicata da Gesù. La parabola del seminatore, proposta nella liturgia di questa domenica estiva, è la rappresentazione di ciò che era già accaduto nientemeno che a Gesù, la Parola divina fatta carne. Anche la sua predicazione non aveva ottenuto successi eclatanti, aveva incontrato freddezza, ed addirittura opposizione. Ecco, l'immagine di una semina avara di frutti diventa la “parabola” della storia della parola divina offerta agli uomini. Ma Gesù non si è arreso. I contrasti e le delusioni non hanno arrestato la sua azione. Così è stato per la Chiesa, fin dalle origini. Guardando alla situazione in cui quella parabola è stata raccontata (da Gesù) e poi scritta (da Matteo, una cinquantina di anni dopo) vengono in mente i tratti di un fallimento (una certa maggioranza religiosa non ha aderito al messaggio evangelico) e di una grande speranza, legata ad una piccola minoranza di discepoli.
Sulla scena c'è dunque un seminatore. Il Signore che predica dalla barca alla folla, sulla spiaggia, assume presto i panni di un seminatore. Occorre ammettere: maldestro e sprecone. Egli sparge la semente senza parsimonia. Buona parte del seme gettato cade su terreni evidentemente improduttivi. Le usanze agricole del tempo giustificano quello sciupio: la semina talvolta precedeva il lavoro di sarchiatura e di pulizia del terreno. Strada, terreno sassoso, rovi non offrono, comunque, le condizioni necessarie perché la semina sia fruttuosa. Ma infine giunge la menzione del terreno buono. E lì il raccolto finale sembra compensare le delusioni precedenti.
Seme e terreno, sono i fattori determinanti del successo/insuccesso di una semina. Questa considerazione si sporge subito su ciò a cui la parabola allude. E chiama in causa lo stesso linguaggio impiegato da Gesù.
Perché parlare in parabole? A noi verrebbe da pensare che il linguaggio parabolico è il più efficace,
soprattutto per chi non è troppo addentro a certe cose. Qui invece appare come un linguaggio che esclude anziché aiutare a capire: “A loro parlo in parabole perché guardando non vedono; udendo, non ascoltano e non comprendono”.
Parlare senza farsi capire?
Anche i vangeli sono situati dentro ad una mentalità “teocratica”, dove tutto è fatto risalire a Dio, la fede e l'incredulità, il bene ed il male. “A voi è dato … a loro non è dato”, osserva Gesù: tutto dipende allora da una volontà divina che ha già determinato gli esiti? Non è esattamente così! Tutti hanno ascoltato, ma non tutti hanno compreso. Perché questa interruzione nel processo di fede?
Se tale conoscenza dei misteri divini è dono di Dio, e non può essere altrimenti, l'attitudine ad ascoltare per comprendere è propria dei discepoli, e non degli altri. La parabola porta un insegnamento sulla responsabilità umana riguardo all'accoglienza della Parola di Dio, responsabilità che la stessa Parola suscita. I tre tipi di terreno in cui il seme della Parola di Dio è gettato, mentre rivelano difficoltà ed ostacoli che la Parola di Dio incontra nel cuore umano, suggeriscono anche delle disposizioni spirituali che aiutano la Parola di Dio a radicarsi e a portare frutto. Alla “superficialità” della strada si contrappone l'esigenza di interiorizzare la Parola di Dio, che va accolta ed elaborata nella coscienza.
Alla “incostanza” segnalata dal terreno sassoso si contrappone l'esigenza di perseverare, di andare avanti, di non gettare la spugna nel tempo della prova. L'uomo che si riconosce in questo terreno sassoso, è l'uomo detto nel testo greco “proskairos”, l'uomo di un momento, senza radici, incapace di far diventare storia la sua fede.
Ed infine – fra i terreni negativi – il terreno dei rovi. Può accadere, dopo avere ascoltato la Parola di Dio, di restare sedotti da altri messaggi. La fede è anche lotta spirituale, è presa di distanza da ogni idolo che rischia di distrarre e di vanificare l'efficacia di quel seme.
E così la parabola del seminatore è diventata la parabola dei “terreni”. La rilettura della parabola, nella parte finale, punta l'attenzione sul passo davvero determinante: dall'ascoltare al capire. Non è un processo solo intellettuale. I piccoli ed i poveri ce la fanno.
E' qualcosa che matura nel cuore e porta ad un agire corrispondente. Perché la Parola la si comprende facendola, mettendola in pratica. Una conoscenza solo ‘culturale' non basta.
Matteo ha raccolto dalla tradizione dei “detti del Signore” questa parabola. L'ha indirizzata alla sua comunità, che già sperimentava la difficoltà di una fede professata e vissuta. Anche i suoi componenti possono ritrovarsi fra i terreni improduttivi, possono cadere nei rischi di un'idolatria che allontana dalla vera fede. E questo vale anche per noi, per la Chiesa di oggi.
Don Piero Agrano. Il seme ed i “terreni” della Parola.
Commento al vangelo della XV domenica del tempo ordinario (16 luglio): Matteo 13, 1-23.Sarà capitato anche a te … di organizzare qualcosa a cui ci tenevi molto, di averci messo tempo, risorse, passione, attese e, poi, di aver constatato, a conti fatti, esiti deludenti e fallimentari, con l'amara, immancabile, ammissione: - non ne valeva la pena! Ed ancora dopo, accorgerti che no, gli esiti non erano poi così negativi, qualcosa di buono ne era venuto fuori, qualche risultato si era visto, a distanza di tempo.
Se la cosa ti può consolare, qualcosa del genere è accaduto anche alla Parola di Dio, predicata da Gesù. La parabola del seminatore, proposta nella liturgia di questa domenica estiva, è la rappresentazione di ciò che era già accaduto nientemeno che a Gesù, la Parola divina fatta carne. Anche la sua predicazione non aveva ottenuto successi eclatanti, aveva incontrato freddezza, ed addirittura opposizione. Ecco, l'immagine di una semina avara di frutti diventa la “parabola” della storia della parola divina offerta agli uomini. Ma Gesù non si è arreso. I contrasti e le delusioni non hanno arrestato la sua azione. Così è stato per la Chiesa, fin dalle origini. Guardando alla situazione in cui quella parabola è stata raccontata (da Gesù) e poi scritta (da Matteo, una cinquantina di anni dopo) vengono in mente i tratti di un fallimento (una certa maggioranza religiosa non ha aderito al messaggio evangelico) e di una grande speranza, legata ad una piccola minoranza di discepoli.
Non ci ritroviamo, forse, anche i tratti del nostro tempo?
Sulla scena c'è dunque un seminatore. Il Signore che predica dalla barca alla folla, sulla spiaggia, assume presto i panni di un seminatore. Occorre ammettere: maldestro e sprecone. Egli sparge la semente senza parsimonia. Buona parte del seme gettato cade su terreni evidentemente improduttivi. Le usanze agricole del tempo giustificano quello sciupio: la semina talvolta precedeva il lavoro di sarchiatura e di pulizia del terreno. Strada, terreno sassoso, rovi non offrono, comunque, le condizioni necessarie perché la semina sia fruttuosa. Ma infine giunge la menzione del terreno buono. E lì il raccolto finale sembra compensare le delusioni precedenti.
Seme e terreno, sono i fattori determinanti del successo/insuccesso di una semina. Questa considerazione si sporge subito su ciò a cui la parabola allude. E chiama in causa lo stesso linguaggio impiegato da Gesù.
Perché parlare in parabole? A noi verrebbe da pensare che il linguaggio parabolico è il più efficace,
soprattutto per chi non è troppo addentro a certe cose. Qui invece appare come un linguaggio che esclude anziché aiutare a capire: “A loro parlo in parabole perché guardando non vedono; udendo, non ascoltano e non comprendono”.
Parlare senza farsi capire?
Anche i vangeli sono situati dentro ad una mentalità “teocratica”, dove tutto è fatto risalire a Dio, la fede e l'incredulità, il bene ed il male. “A voi è dato … a loro non è dato”, osserva Gesù: tutto dipende allora da una volontà divina che ha già determinato gli esiti? Non è esattamente così! Tutti hanno ascoltato, ma non tutti hanno compreso. Perché questa interruzione nel processo di fede?
Se tale conoscenza dei misteri divini è dono di Dio, e non può essere altrimenti, l'attitudine ad ascoltare per comprendere è propria dei discepoli, e non degli altri. La parabola porta un insegnamento sulla responsabilità umana riguardo all'accoglienza della Parola di Dio, responsabilità che la stessa Parola suscita. I tre tipi di terreno in cui il seme della Parola di Dio è gettato, mentre rivelano difficoltà ed ostacoli che la Parola di Dio incontra nel cuore umano, suggeriscono anche delle disposizioni spirituali che aiutano la Parola di Dio a radicarsi e a portare frutto. Alla “superficialità” della strada si contrappone l'esigenza di interiorizzare la Parola di Dio, che va accolta ed elaborata nella coscienza.
Alla “incostanza” segnalata dal terreno sassoso si contrappone l'esigenza di perseverare, di andare avanti, di non gettare la spugna nel tempo della prova. L'uomo che si riconosce in questo terreno sassoso, è l'uomo detto nel testo greco “proskairos”, l'uomo di un momento, senza radici, incapace di far diventare storia la sua fede.
Ed infine – fra i terreni negativi – il terreno dei rovi. Può accadere, dopo avere ascoltato la Parola di Dio, di restare sedotti da altri messaggi. La fede è anche lotta spirituale, è presa di distanza da ogni idolo che rischia di distrarre e di vanificare l'efficacia di quel seme.
E così la parabola del seminatore è diventata la parabola dei “terreni”. La rilettura della parabola, nella parte finale, punta l'attenzione sul passo davvero determinante: dall'ascoltare al capire. Non è un processo solo intellettuale. I piccoli ed i poveri ce la fanno.
E' qualcosa che matura nel cuore e porta ad un agire corrispondente. Perché la Parola la si comprende facendola, mettendola in pratica. Una conoscenza solo ‘culturale' non basta.
Matteo ha raccolto dalla tradizione dei “detti del Signore” questa parabola. L'ha indirizzata alla sua comunità, che già sperimentava la difficoltà di una fede professata e vissuta. Anche i suoi componenti possono ritrovarsi fra i terreni improduttivi, possono cadere nei rischi di un'idolatria che allontana dalla vera fede. E questo vale anche per noi, per la Chiesa di oggi.
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